Leonardo

Fascicolo 5


La fanciullezza dell'anima 1
di Alfredo Bona
pp. 5-6
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Io non so immaginare alcun uomo, che nei diversi momenti della sua vita non abbia scoperto nell'anima l'esistenza di un fanciullo che non cambia e non cresce per gli anni, ch'altro non è se non la stessa fanciullezza che si mantiene attraverso l'intime ed aspre battaglie delle passioni, sino a che, quietato d'esse il tumulto, liberamente tornerà a parlare a noi bene accetto perchè ricorda.
  Mostra d'averlo per primo scoperto quale cosa che esista veramente Cebes Tebano, uno dei personaggi interlocutori del Fedone, non essendo forse stato innanzi per gli altri che un idea vaga e confusa, come di quelle cose che a malapena si vedon per la troppa distanza: «Come fossimo impauriti, o Socrate, tenta di persuaderci: o meglio, non come se fossimo noi impauriti, ma forse è in noi un fanciullo che teme siffatte cose; proviamo dunque di persuaderlo a non aver paura della morte».
   Con tal fanciullo il gíovine, nella baldanza della verde età, non ama trattenersi, perchè troppo riguarda con occhio intento le cose e di tutto si meraviglia, ricordandogli un passato molto recente; l'uomo invece nella maturità della sua vita, parla con lui sovente, quasi per far risaltar la sapienza ch'è andato con tanta fatica acquistandosi: il vecchio nella penombra dell'anima, lo chiama ad ogni istante e ne fa l'assiduo compno di quelle che sempre dice le sue estreme giornate e tal colloquio ha una dolce armonia che solo il poeta può significar meravigliosamente nell'immagine del grigio mare che riversa le canute spume sulla spiaggia scabra. E se le cose del mondo non appaiono al gravato dagli anni che in aspetto reso desolante per le nevi dell'anima, pur vede ancora qualche riflesso di bellezza con gli occhi di quel suo fanciullo ed ha talvolta le grate visioni dei primi anni di sua vita — la sapienza della lunga età, è la maniera semplice e piana di quel fanciullo che dentro gli detta, gli faran dir cose non inutili o vane.
   Tali, per la tradizione ch'è giunta a noi, dobbiamo figurarci gli aedi antichi, che molte cose sapevano perché molto avevan veduto, ed eran perciò vecchi e spesse volte ciechi: eppure «il non veggente fa apparire il suo canto» alle moltitudini folte.
   E in tale canto che darà gioia agli uomini perchè non udito ancora, il fanciullo narrava gesta d'eroi dalle lucenti armature, dalle pesanti aste di bronzo ai fanciulli ch'eran negli uditori ed ascoltavano attenti: e diceva ancora di lontani paesi ov'eran meraviglie impensate e dove egli era stato almeno colla mente e gli altri non furono mai. E parlava senza ordine, diffondendosi in mille particolari, passando da l'uno e dall'altro con rapida associazione, che appena lo spirito vigile dell'uditore avrà potuto seguire, per mostrare che aveva veduto, proprio veduto. Per non essere frainteso ricorreva a tenuissime sfumature, a similitudini di cose che eran sotto gli occhi di tutti, servendosi di piccoli fatti e comuni per farne intendere uno straordinario o grande.
   A tal fanciullo Giovanni Pascoli molte cose domanda e molte ne insegna, rispetto al fine ed ai precetti dell'arte sua in quella prima parte del suo ultimo libro «Miei pensieri di varia umanità» che è un bellissimo esempio di vera e fresca prosa italiana.
   Il suo fanciullo mostra d'avere una certa infarinatura di precetti oraziani, che traducono qua e là: ma è naturale, mi sembra, per la lunga consuetudine ed i frequenti colloqui con un tal profondo conoscitore di lettere classiche: sogna un poco più di quello che non faccian di solito gli altri fanciulli ma anche questo è facilmente spiegabile come derivato necessario della compnia d'un poeta, che deve essere un sognatore in ogni maniera.
   «Hai tu un fine? «chiede il poeta a lui;» immagino che codesto fine non sia quello di dare un po' d'aiuto, di fornire un po' d'oro, al tuo vecchio ospite: immagino, anzi so, che tu non conosci altro oro che il metaforico, che non si spende» E seguita dicendo che se non gli da un aiuto diretto, non glie lo dà ugualmente per altra via, perchè non gli acquista favore per la sua arte. I sorrisi infantili non son voluti fra tanto imperversare di gravi ragionamenti, dalla gente seria che più non li sa comprendere per le speciali necessità della vita, e son cacciati come una volata di passeri in un campo di grano.
   Altri ancora li credono artifici e li biasimano in varie maniere.
  A lui il fanciullo in armoniosi versi risponde dolci parole: egli non porta ricchezze ma lo rende contento del poco, in che si trova la felicità e gli appresta rose cadute dal pruno per il letto di morte, del quale il mondo trema pensando.
   Ma il poeta che vive fra gli uomini gli domanda ancora se le poesia non abbia un supremo utile morale o sociale, col dir la verità semplicemente. E lo richiede ancora di molte e molte cose tra le quali se debba il vate, che trova il sorriso e l'anima di esse e cercar lontano alcunchè degno d'esser cantato e che dia meraviglia come cosa non mai veduta, e cantare per ammonir le genti, per fare buone o cattive profezie come si è soliti.
   E il fanciullo s'imbroglia un poco e si contraddice spesse volte, dicendo ogni tanto perfettamente il contrario di quel che aveva poco innanzi affermato.

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   Io penso veramente con Platone che i poeti debbano fare piuttosto delle immagini che dei ragionamenti, per non distruggere a poco a poco quella speciale attività del loro ingegno che la natura più o meno benigna ad essi largisce, quasi a distinguerli dagli altri uomini: e sono d'accordo anche con quelli che ammettono la contraddizione come stato naturale di quegli animi che fuggon la gelida tirannia della logica per dir piuttosto quello che sentono di quello che sarebber costretti a dire per non derogare dai loro principi: ma questo ch'io esamino non è anzitutto un libro di poesia, è un libro di critica, che deve quindi esser stato meditato e che farà meditare quei molti che lo leggeranno, e in secondo luogo le contraddizioni sono troppe e frequenti per esser lecite.
   Io credo anzitutto che i molti suoi libri di esegesi e di critica, scritti in questi ultimi anni siano la principale causa che si vada esaurendo come poeta geniale, per far confluire tutte le forze del suo ingegno in tal genere di studi che non destano in noi ammirazione alcuna, cosa che tutti pensano e nessuno ha il coraggio di dire apertamente.
   Mi sembra anche che le sue idealità poetiche non siano troppo alte; l'aurea mediocritas è per lui ancora il più alto degli ideali... ed uno dei pochi casi che danno una conferma al principio del Sully Prudhomme, essendo, a mio credere originato dal suo temperamento. Vero è che ad un certo punto mette le mani avanti in bella maniera intendiamoci però l'esser poeti della mediocrità, non significa esser poeti mediocri...
   E poi che ho accennato a contradizioni ne rileverò brevemente alcuna, perchè le mie parole non debbano sembrare agli incondizionati ammiratori di lui personali o fantastiche asserzioni.
   Ad un certo punto egli dice che la poesia ha un fine morale e sociale e più sotto, ad accertare maggiormente tale idea, continua a un dipresso cosi: il poeta, quando è tale, cioè quando significa ciò che il fanciullo detta nella sua anima, è ispiratore di buoni costumi, d'amor patrio, familiare ed umano, onde la credenza delle genti antiche che il suono della cetra adunasse le pietre a costruir le mura e le città, animasse le piante e rendesse mansuete le fiere e che i cantori, maestri di civil costume guidassero i popoli educandoli. Non rammenta quindi d'aver poco innanzi lodato il poeta che cantò «senza pensare ad altro, senza darsi arie di consigliatore, d'ammonitore, di profeta del buono e del cattivo augurio, che cantò per cantare». E poco dopo si domanda ancora: è veramente il poeta autore di provvidenze civili o sociali? Egli stesso non dubita del contrario se dice per tutta risposta: senza accorgersene se mai.
   Meglio avrebbe fatto ad ammettere il «prodesse» e il «delectare» ad un tempo, come Orazio antico, mentre invece sembra ogni volta che ammette l'uno di questi due fini, escludere completamente ogni altro possibile.
   E le cose sublimi non sono poetiche per lui se non dette «da chi stupisce o teme»: il poeta deve esser quindi «il poverello della umanità». Le cose sublimi quando si sappia mantenerle tali, sono già per loro stesse, poetiche, qualunque sia l'animo di chi di esse parli e poi come può esser timoroso il grande poeta, se guida e istruisce gli uomini i quali creano i valori, e sono perciò la misura delle cose?
   Cosi pure sembra strano un'altra sentenza di lui: «impoetico è tutto ciò che l'umanità proclama cattivo». Ciò che l'umanità proclama cattivo è naturalmente fonte di dolore, e non credo si possa scartare dalla materia poetica giunta sino a noi tutto ciò che ha tratto origine da questo grande rigeneratore morale, nè cancellar dal numero dei poeti tutti quelli che l'hanno cantato, credendolo, anche senza aver letto lo Schopenhauer, lo stato quasi abituale degli uomini, partendo dal principio che la somma dei dolori superi di gran lunga quella dei piaceri. Cosi non credo vero ugualmente che per cantare il male occorra fare uno sforzo costante


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sovra sè stesso, perchè gli uomini più di esso che del bene si ricordano, e con gli altri di solito diffusamente ne parlano, divenendo deboli, per quanto li riguarda, mentre delle gioie proprie narran pochissimi, per non menomarle dandole, come si dice, in pasto al pubblico. Anzi difficile è cantarle perchè destano l'eco nel cuore di pochi, mentre il dolore commuove la maggior parte degli uomini, perchè tutti l'hanno provato.
   Ed è vero poi che il poeta esprima sempre la parola che tutti hanno sul labbro e nessuno direbbe, e che si debba considerare il suo canto come la manifestazione della coscienza della folla, per modo che se pensa alla patria è segno che tutti vi pensano? La memoria mi suggerisce diversi esempi del caso contrario: fra gli altri quello di uno speciale periodo del secolo decimo quarto, in cui risorge l'idea della nazionalità tutti i poeti, con a capo il Petrarca, cantavano la patria e si profondevano un'immagini più o meno strampalate: una infinità di componimenti poetici attestano che la patria era il grande sfogatoio del naturale furor delfico di tutti quelli che facevano versi mentre invece le moltitudini non vi pensavano neppure, e noi oggi consapevoli di ciò, sorridiamo a la maggior parte di quella affannosa retorica. Il poeta dunque rappresenterà, tutt'al più, una corrente d'idee proprie di un certo numero di persone, tendenti però a differenziarsi degli altri: la qual corrente è più formante che formata perchè l'uomo di genio, quando è tale, lascia una profonda modificazione all'età in cui vive, e non è trascinato, ma piuttosto trascina e sempre trascinerà sino a che la maggioranza delle genti umane sarà composta di deboli, d'impotenti e di stolti.
   Termina poi dicendo cose che molti già sanno in gran parte: la fresca genialità dello stile, la nitidezza di alcune immagini, che danno alla sua prosa un certo colorito poetico, le rendono però abbastanza interessanti.
   Conclude manifestando le sua aspirazione non alla gloria effimera, ma (e questo contrasta con la sua aria di modestia abituale) come i primi grandi poeti, a riconfondersi nella natura, d'onde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo ed eterno, in che è la gloria vera che non paventa la fuga dei secoli.

***
   A me non già come al poeta il fanciullo ragiona.
   Non sembri ad alcuno atteggiamento presuntuoso esporre dopo luì le mie idee, perchè secondo ch'egli stesso dice con esplicita frase, uguale è la sostanza psichica dei fanciulli di tutti.
   Non credo dunque che non possa esser o divenire poeta colui che ha una visione sì grande che i suoi occhi non posson misurare: anzi mi sembra ch'egli piuttosto dovrà aguzzare quelli della mente per ritrovarne nitidi i contorni e poterla tradurre in parole.
   Non deve stupire o temere non deve farsi povero, ma innalzarsi piuttosto e farsi grande e possente di fronte alle cose se vuole generar bei pensieri e poterle degnamente cantare. Altrimenti lo spirito, che già in alcuni fu Dio, dopo esser divenuto uomo nei più, finirà col divenire plebe, la quale è timida perchè piena di superstizioni.
   Coraggioso, incurante, beffardo e violento talvolta dovrà essere il cultore della poesia, la quale è donna, direbbe Zarathustra, e non ama che i guerrieri. Non deve bandire o soffocare la passione, vertiginosa quadriga che va e va senza posa nello stadio dell'anima, perchè essa fu, com'è sempre, e tale si conserverà nel futuro, ispiratore d'altissima poesia. E il poeta abbia il cuore accessibile all'amore per poter comprendere la vita, che noi amiamo non già perchè siamo assuefatti ad essa, ma perchè siamo avvezzi ad amare. E si distingua dagli altri, mostrandosi uno spirito libero nemico d'ogni pastoia che non adora soltanto quel che gli altri han lasciato: se le moltitudini lo odiamo che importa? Al bisogno potrà ritrarsi nella solitudine d'onde invano tenteranno cacciarlo perchè s'insozzi del terrestre limo che si chiama dai più il sentir retto. Egli deve non tanto provare meraviglia delle cose, quanto ispirarla agli uomini, se deve tentar di penetrarne l'essenza, di investigar il mistero affinchè la potenza resa benevola fra le cose sentibili possa chiamarsi bellezza.
  Ma non intendo però che fine del poeta debba essere la meraviglia, come fu intesa nel secento da un de' maggiori di quella età, tanto per sbalordire la gente: le cose reali e possibili debbono per suo mezzo esser espresse in maniera quasi sovrannaturale.
   Le immagini non debbono aver apparenza di cose menzognere o di finzioni, ma essere fatte a similitudine di cose vere perchè le genti credano alla realità del mondo poetico e traggan da questo falso utilità o gioia.
   Ricerchi pure il vate quello che dicono gli uomini tutti e sia cupido anche delle storielle che narran le donnicciole favoleggiando: egli le trasfigurerà con le forza leonina del suo ingegno per innalzarle.
   La poesia umana piace ed è accetta ai più, ai poveri di spirito: che importa dunque coltivarla ancora se tutti i fatti della vita comune sono poetici e se di conseguenza dove tutto è ideale, nulla sarà più ideale? Cessi dunque la nenia terreste e ceda al canto divino: i poveri di spirito avranno in cambio il regno dei cieli.
   Chi alza il canto che l'anima detta non deve credere se una tenera sensazione l'assalga, che la natura sia presa d'amore per lui: aspiri piuttosto a renderla maggiormente ideale e più bella, anzichè renderla più piccola e meschina come oggi fanno molti cercatori di rime: essi sono mari senza profondità. I fanciulli che ascoltano attaccati ai tuguri, alle finestre delle case ai veroni dei grandi palazzi amano sentir narrare di cose e di gesta meravigliose d'eroi, ciò che in essi desta un certo stupore al loro stato infantile.
   Che sono infine le Deità, se non immagini e creazioni dei poeti, tramandate nel tempo, alle quaali sí presta fede come a cose salde?
   Se tanto grande è dunque la sua facoltà creativa, in avvenire il cantore possente fra i viventi sarà creduto quello che il Boccaccio stimava avrebbe potuto diventare il «signore dei culmini» un Iddio immortale.
   Firenze, 13 Febbraio 1903.


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